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I Morti

La chiamano giornata dei morti o anche “Commemorazione dei morti”. E’ un giorno particolare, una sorta di memento mori. E’ il giorno in cui ci dovremmo ricordare dei nostri limiti e della nostra mortalità.
Sì. E come affrontare la morte? E’ l’esorcismo magico di questo giorno. Le nostre radici greche ci rimandano al tempo arcano in cui le donne siciliane si tiravano i capelli e urlavano nei cimiteri. Avevo quindici anni l’ultima volta che vidi una cosa del genere, nell’entroterra non troppo inoltrato di Niscemi. Erano donne anziane che gridavano come ossesse, le poteva sentire anche chi stava fuori dalle mura del campo santo. Il cielo di Niscemi era grigio, sempre, e una serie di fiumane umane occupavano le stradine. Era come una grande piazza, dove ci s’incontrava e si discuteva, principalmente d’eredità, dei buoni (o cattivi) gesti di un defunto e di turreni, i fondi coltivabili dell’argillosa Niscemi. Le donne, soprattutto loro, stavano per ore a parlare con la fotografia di un morto, vestite di un nero cupissimo, sedute su vecchie e malconce sedie di legno; mangiavano là e continuavano a parlare. Picchì t’innisti, fijjiu miu? e Quant’era bravo stu mo maritu: frasi ripetute come mantra, ossessivamente. E ancora pianti. E, lontano, altre urla.

Ma era una festa per i vivi, l’occasione per non fare vedere d’esser morti: ritornavano da fuori i vecchi emigrati e parlavano con gli amici che non vedevano da tanto, oppure incontravano gente, gente che non sentivano da quarant’anni. Era veramente una festa dei vivi, con i boyscout goffi e le loro candele di Padre Pio, i ragazzini che sparavano con fucili ad aria compressa o con altre armi giocattolo. Ai bambini si regalavano sempre pistole o fucili per i Morti. Si diceva che i morti portassero i doni di notte e che mangiassero la frutta martorana. E si diceva anche che il regalo più indicato per un bambino fosse una pistola. Niscemi sembrava un po’ Kabul o Baghdad, forse anche per via di quell’usanza di lasciare i muri esterni delle case senza rifinizione, più che per gli spari dei ragazzini. I tetti piani, rettilinei, come case arabe: ogni palazzo coronato da un serbatoio blu, perché da quelle parti ci sono sempre infiniti problemi con le forniture idriche.
Ironia della sorte per Niscemi. I bambini con le pistole giocattolo in mano e l’aria pesante di mafia. Una serie di disgrazie, una dopo l’altra, che attanagliavano la città e le cose meravigliose che offriva. C’era l’antenna degli americani, lontana e misteriosa, la sughereta e i tatò, inzuppati di zucchero. E c’erano le storie di un far west siciliano, di vecchi banditi e indipendentisti, di furti e miserie. E la frana, la frana maledetta, e le schumme, che il traduttore italiano rendeva banalmente “meringhe”. Niscemi era ed è una città particolare, senza dubbio. Si concentrano qui molte più storie di quante ne possa raccontare di solito una cittadina di provincia. A Niscemi c’erano stati i miracoli e c’erano gli altari di San Giuseppe. Ma questo non era bastato a salvare la vita a tanta gente, che misteriosamente scompariva. Era ed è solo una percezione, ma ho sempre sentito che in quella città la gente muoia di tumore, se non di altre malattie, più che altrove. Per non parlare di tutte le miserabili manie mafiose che si portavano via questo tizio o l’altro.

Per me il viaggio a Niscemi, quello per i Morti, era una meta tradizionale e aveva il sapore di un ritorno all’alfa e all’omega. Sembrava di andare in un altro mondo, quasi ultraterreno. Un posto pieno di ricordi, dove le vecchie fattorie erano andate in pezzi sotto la rovina del tempo. I ricordi di chi si commuoveva sinceramente all’inevitabile fine. La città di mio nonno e di mio padre.
Oggi, è ancora un angolo di sfortunate coincidenze o di calcoli spietati, a seconda di come si voglia raccontare la storia del MUOS. Ci metteranno su una bella serie di antennoni giganti per regalare altre radiazioni, altra morte a questa cittadina. Per difenderci dai pericoli, dicono. E qualcuno afferma che ci ha già messo mano la mafia, tanto per cambiare.
A me viene in mente mio nonno, che raccontava che la sughereta era una grande risorsa economica. C’era pure un albero gigante, una cosa colossale. Un’altra cosa impressionante, un’altra cosa ultraterrena. Come le storie distanti dei ragusani e dei modicani che dormivano sotto i carri, aspettando che si finisse la mietitura a Feudo Nobile, perché poi avrebbero raccolto le spighe, quelle che erano rimaste. Li chiamavano spicaluori. Storie perdute nel tempo di un patrimonio da proteggere, dei ricordi da tutelare a Niscemi, che non si limitano al museo degli strumenti agricoli o alle casematte della Seconda Guerra Mondiale. Storie di esseri umani che non meritano di essere offese.

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