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Lo straniero come occasione di nuova esistenza

Di Giacomo Pisani

 

A ben notare, le politiche dell’ “accoglimento” degli immigrati, negli ultimi anni, si sono orientate verso la ricerca di forme di assorbimento delle alterità irriducibili del diverso entro i quadri della società ordinaria, corretta, dominante. E’ da notare che tutti sono ben attenti a sfuggire ad ogni forma “politicamente scorretta” di inquadramento dell’alterità, evitando ricorsi espliciti a determinazioni razziste, xenofobiche, emarginanti. E’ necessario, in questa prospettiva, conciliare un’apparente disponibilità al riconoscimento etico dell’altro come uomo, agli effettivi obiettivi di affermazione della superiorità del nostro essere italiani e padroni di questa terra.
I CIE, centri di identificazione ed espulsione, ma anche i CARA, i centri di accoglienza per richiedenti asilo, sono gli strumenti essenziali per avviare il lungo cammino di affermazione della superiorità dei padroni di casa. Nel migliore dei casi, quando l’immigrato non è ricacciato nel proprio Paese, quando non gli è impedita la possibilità stessa dell’esistenza, sarà immesso in una società che, ripiegata nel proprio narcisismo individualistico, vive nella conferma delle proprie categorie culturali e risulta impossibilitata ad incontrare l’altro nei suoi tratti peculiari e irripetibili.
La nostra attuale società capitalistica è dominata da logiche astratte eppur stringenti, che impongono all’individuo ritmi costanti e ben scanditi dalle categorie del vivere sociale. Tutto ciò che esula da tali categorie, mettendo in discussione la corsa ad un’esistenza già scritta da bisogni estranei eppur vitali, può essere al massimo oggetto di curiosità, ma mai di autentico interesse.
Quella dell’immigrazione è senza dubbio per l’uomo occidentale una sfida, fra le più ardite, in quanto coinvolge la costituzione stessa dell’uomo, la stoffa della sua esistenza. Lo straniero, infatti, è evidentemente ben altro che una semplice-presenza, nel senso heideggeriano del termine, irriducibile quanto indifferente all’esistenza del soggetto. Heidegger, in “Essere e tempo”, sosteneva che l’uomo, l’Esserci, è per essenza un essere-nel-mondo, e il mondo è fatto non solo di oggetti, di strumenti e di cose, ma anche dagli altri. Gli altri sono dunque una parte costitutiva della nostra esistenza, la quale si forma con essi e insieme ad essi struttura l’esperienza del soggetto. Heidegger arriva ad affermare dunque che “l’Esserci ha la struttura essenziale del con-essere”.
Nel rapporto con gli altri, allora, ne va del rapporto con noi stessi, della comprensione del mondo e della nostra apertura al possibile.
La comprensione genuina dell’altro, l’apertura al suo mondo, alle sue azioni, ai suoi costumi, alla diversità delle sue forme di vita, ci permette di rapportarci in modo più autentico ai nostri modi di fare. Si coglie finalmente la vita come “possibilità”, come la più alta delle possibilità, quella che mette in gioco la nostra intera esistenza nell’atto della scelta. Nella scelta fondiamo noi stessi, perché è lì che prende forma il mondo, nell’atto stesso del nostro fondarci, del darci senso come uomini. Aprendoci agli altri ci apriamo a noi stessi come progetto in continuo divenire, mai banale, mai scontato, sempre disposto alla ridefinizione. Sta a noi decidere, e nella decisione la nostra costituzione, con tutta la storia che la determina e che ci sostiene, può finalmente esprimersi e dare voce alle nostre forze essenziali.
La chiusura all’altro è una chiusura alla nostra stessa esistenza. Ignorare i modi di essere dell’altro significa sedimentarsi sulla propria condotta, assolutizzarla, lasciarsi vivere dal mondo perdendo la propria libertà. In questa condizione, l’altro diviene oggetto al massimo di curiosità, che si posa sull’aspetto pubblico dello straniero, dell’immigrato, per distogliersene appena egli comincia a coinvolgerci. Così l’altro diviene l’oggetto indifferente dello sguardo fiero e sicuro di sé di ciascuno di noi, quando si assurge a padrone dominante del proprio mondo e della propria vita, perdendo di vista la varietà delle passioni, l’irripetibilità delle esperienze, l’immensità della libertà. Perché la libertà comporta l’angoscia e la responsabilità di decidere delle proprie azioni, di fare i conti con quello che si è, nell’atto di incontrare il mondo, di scoprirlo. Scoprire l’altro ci permette di sondare parti di noi prima mai stimolate, che possono esprimere voci mai ascoltate e aprire l’esistenza ad altri angoli di verità, di comprendere il mondo da altre prospettive, prima inesplorate. Così il mondo prende forma in un cammino di conoscenza e comprensione che si colora delle sfumature del nostro essere, mai deciso, mai appiattito, sempre in procinto di farsi.
L’altro, lo straniero, è per l’uomo una sfida, sì, ma anche un’occasione, la più grande delle occasioni. Quella di riprendere in mano la nostra esistenza, di viverla direttamente, di riportare le nostre azioni a misura di decisione, nell’atto stesso di scoprire noi stessi nel mondo.


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