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“La casa in collina” di Cesare Pavese

Il romanzo “La casa in collina” di Cesare Pavese tratta e narra in maniera riflessiva e al contempo concreta il costruirsi della Resistenza italiana, vista con gli occhi immobili di Corrado, un colto professore torinese. Tra il caos e gli orrori della guerra, Corrado si rifugia sulle colline piemontesi lontano dalla confusione cittadina, ospitato da due donne attempate e premurose. Il professore, durante una consueta passeggiata notturna in compagnia del cane Belbo, segue un allegro coro di voci che lo guidano all’osteria “Le Fontane”, in cui incontra molti antifascisti, tra cui Cate, donna da lui amata anni prima e madre di un bambino che potrebbe essere suo figlio, Dino (tra l’altro, diminutivo di Corrado). L’“intellettuale borghese” non saprà mai la verità sulla sua tanto presunta quanto agognata paternità, e la esercita tuttavia  occupandosi di Dino, nel quale intravede diverse analogie con la sua fanciullezza e trasmettendogli le sue conoscenze scientifiche. Conosce Fonso, un giovane operaio comunista molto intraprendente che poi parteciperà alla lotta partigiana, in quale con i suoi ideali mette in discussione gli alibi intellettualistici dietro cui Corrado si nasconde e tramite cui giustifica la sua inazione politica. Il professore, incapace di rivestire un ruolo attivo all’interno della guerra civile (se non quello di uno spettatore), si rivela inetto ad agire, adottando un atteggiamento evasivo di fronte alle responsabilità e alle esigenze che la guerra spinge ad assumersi, dovuto alla sua marcata passività intellettuale. Anche Cate cerca di suscitare in lui una maggiore sensibilità politico-ideologica, ma Corrado preferisce non prendere posizioni e mantenere la propria linea sfuggente, condizione di apatico isolamento mentale che sfocia in un pessimismo quasi nichilistico .

Una più critica concezione di guerra e riflessione sulla morte appare in Corrado nel momento in cui assiste da lontano, mentre ritorna da Torino, alla deportazione nazista dei suoi amici dell’osteria, tra cui anche Cate, che non rivedrà mai più. Tuttavia Corrado non riesce ancora a trovare un senso nella guerra, e il suo spirito di inettitudine e inutilità sociale viene largamente amplificato dalla visione dell’arresto dei suoi amici sovversivi alle Fontane, in seguito al quale si rifugia in un convento di Chieri. Infine, sprofondato in una crisi esistenziale, Corrado affronta un tormentato viaggio attraverso le colline delle Langhe sconvolte dalla guerra per ritornare alla sua casa natia. In questa ultima parte del romanzo emerge una dolorosa riflessione sulla causa delle innumerevoli morti: la guerra non è più semplicemente un evento parte della realtà, ma è la realtà stessa. Il romanzo costituisce un’amara testimonianza degli orrori della Seconda Guerra Mondiale, narrando di gente semplice, rassegnata al “destino di classe” e allo stesso tempo speranzosa, contro chi tiene in mano le leve del potere, intravedendo degli auspici nell’attivismo e nel socialcomunismo. La condizione di solitudine fortemente espressa dalle pagine de “La casa in collina” non rimane una condizione statica, ma appare come una situazione sociale e storica. Dai caratteri marcatamente autobiografici, questo malinconico romanzo offre un chiaro quadro sulle situazioni belliche e una minuziosa descrizione di contesti, luoghi, persone, stati d’animo suscitati dalla terribile ed irrazionale invenzione della guerra con un freddo e distaccato realismo.

Vasto è il divario fra collina e città, rispettivamente ricordo nostalgico e solitudine, ambienti contrastanti anche per l’autore. Corrado rappresenta il comune essere umano che ha paura, spalancando la natura umana che solo pochi cercano di sovrastare, non crede di potere influire sul corso della storia. L’io narrante non poteva che essere omodiegetico, il quale, attraverso una focalizzazione interna su Corrado, esprime il tema della solitudine, del ricordo e della coscienza civile della Resistenza, rispecchiando la personalità di Pavese. Pertanto, “La casa in collina” è un libro autentico, sempre attuale, spunto di riflessione, grazie anche a un linguaggio crudo, genuino e concreto da cui si evince una grande sensibilità dell’autore. La scrittura assume sovente un tono commosso, razionale, triste. Questo libro è da considerarsi un importante frammento della letteratura e della storia italiana, da leggere assolutamente, nonché mezzo pratico per toccare con mano la disumanità del nazifascismo. Nonostante il protagonista si rifiuti di vivere la guerra in prima persona, si rende conto della sua situazione e si sente in colpa: “Non sei mica fascista? – mi disse. […] – Lo siamo tutti, cara Cate, – dissi piano. – Se non lo fossimo, dovremmo rivoltarci, tirare le bombe, rischiare la pelle. Chi lascia fare e s’accontenta, è già un fascista …” La guerra per Corrado continua, continua per tutti.

Probabilmente solo per i morti è veramente cessata: ha avuto una collocazione temporale e spaziale, una successione di avvenimenti seppure assurda e disumana. Corrado alla vista dei corpi senza vita, “rossi” o “neri” che fossero, prova disgusto, rabbia, voglia di evadere da una mentalità fuori da ogni decenza. Guardando un caduto, pensa che potrebbe trovarsi lui al suo posto e che è vivo perché qualcun altro, invece, è morto. La morte, soprattutto quella civile è il riflesso di una società malata, che si ostina a pensare che la violenza e lo scontro militare siano degli strumenti adatti a risolvere i problemi di un paese. La pesantezza concretamente tangibile della polvere di piombo che grava sulle vite umane rende impossibile qualsiasi forma di impegno, e di fronte ai fatti si può solamente fuggire; la penna di Pavese si interrompe con una domanda senza risposta: “Ora che ho visto cos’è guerra, cos’è guerra civile, so che tutti, se un giorno finisse, dovrebbero chiedersi: – E dei caduti che facciamo? Perché sono morti? – Io non saprei cosa rispondere. Non adesso, almeno. Né mi pare che gli altri lo sappiano. Forse lo sanno unicamente i morti, e soltanto per loro la guerra è finita davvero.”.

 

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